Creola Katherine Johnson: la donna che ci ha portato sulla Luna

“Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità” 

Queste furono le iconiche parole pronunciate il 20 luglio 1969 da Neil Armstrong, il primo essere umano ad aver camminato sulla Luna. Tuttavia, abbiamo dimenticato che dietro ogni grande uomo, si nasconde sempre una grande donna. E questa storia non fa eccezioni. Infatti, i calcoli orbitali che hanno portato l’umanità alla conquista lunare, non sono stati effettuati da un computer, bensì da una donna. Una fisica e matematica che ha cambiato il corso della Storia, ma soprattutto una persona che ha lottato contro le ingiustizie, le disparità sociali e le iniquità razziali. E oggi, abbiamo l’onore di averla ospite qui con noi. Signore e Signori, fate un grosso applauso per la nostra Creola Katherine Johnson!

(Applausi) 

Buongiorno a tutti! È un piacere essere qui con voi. 

Ciao Katherine, il piacere è tutto mio (nostro). Allora, vuoi raccontarci un po’ di te? Iniziamo, ad esempio, da quando e dove sei nata. 

Oh cielo, figliolo! Dobbiamo andare così in là nel tempo? Sai, ho qualche anno di troppo (102 anni) e ho fatto tanto di quelle cose, da non ricordare più quando e dove sono nata.  

Ma dai, non posso credere che un cervellone elettronico come te, dimentichi delle informazioni del genere. Anzi, te lo leggo negli occhi e dal sorrisetto beffardo, che c’è del sarcasmo nelle tue parole. 

È che non volevo rivelare ai lettori quanto fossi vecchia, ma se ci tieni così tanto. Sono nata nel lontano 1918, a White Sulphur Springs, Virginia Occidentale. 

Lo vedi, non è stato così difficile dirlo. E, oltre a Garibaldi, chi veniva a scuola con te? 

Disgraziato! Ecco, vedi perché non volevo dirlo? 

Non ti preoccupare, sei comunque tra le persone più giovani invitata a queste interviste. Comunque, vedo che ti sei diplomata alla contea di Kanawha. È lontana da dove abitavi con la tua famiglia. Come mai questa decisione? 

Beh, perché non c’era altra scelta. I miei genitori credevano tantissimo nello studio, ma dato che la contea di Greenbrier non assicura l’istruzione liceale agli studenti di colore, io e miei fratelli dovevamo seguire le lezioni dove ci era concesso. E la contea di Kanawha era la più vicina.  

Deve essere stata dura, ma i tuoi genitori hanno preso la decisione giusta, investendo nell’istruzione della famiglia. Pensa che spreco sarebbe stato per l’umanità, se tu non avessi continuato gli studi. Probabilmente, non staremmo qui a parlare della conquista nello spazio, perché non ci sarebbe stato alcun uomo sulla Luna. Ed è stato meglio non aver sulla coscienza un genio della matematica come te! 

Grazie! ma non mi considero un genio. Dopotutto, ho fatto solo quello che amavo di più nella mia vita: studiare la matematica e risolvere problemi complessi. Non ho fatto altro che applicare quella mia naturale inclinazione, di cui Dio mi ha fatto dono. Ciò che era difficile agli occhi di tutti, per me era banale. E ciò che tutti pensavano fosse impossibile, lo trovavo entusiasmante. Insomma, ero nata per essere matematica! E sin da bambina, avevo dimostrato la mia predisposizione, tanto da diplomarmi all’età di quattordici anni. Da all’ora, agli occhi ero un “enfant prodige”, ma non ho mai amato le etichette. Non mi si addicono e non penso che i geni esistano realmente. Penso solo che, quando una persona ama con tutto il suo cuore quello che fa, non può che farlo al meglio.

Sono d’accordo. Però, devi ammettere di essere stata una persona speciale! Nel 1938, hai superato le barriere segregazioniste della West Virginia State College, diventando la prima donna afroamericana a laurearsi all’università, “cum laude” e all’età di diciotto anni. Poi, hai intrapreso la carriera da matematica, un percorso a porte chiuse per tante donne afroamericane dell’epoca. 

Effettivamente, non tutti possono avere il piacere di raccontarlo. Soprattutto, considerando il dilagante razzismo che regnava ai miei tempi. Quando alla NACA (diventata poi NASA) avevano aperto l’assunzione alle donne afroamericane, non ho esitato, nemmeno per un istante. Ho visto un’opportunità e l’ho colta! Ero stata assunta per l’agenzia spaziale più importante e prestigiosa del mondo. Un sogno per tutti, ma non per chi vive ad occhi aperti. 

Inizialmente, ho lavorato in un gruppo di matematiche, tutte donne afroamericane. Ogni giorno, con la pioggia o con il sole, che fosse estate o inverno, potevi trovarci in una stanza angusta a lavorare come muli. Eravamo chiamate “computors”, ossia computer virtuali che indossano gonne. Difatti, il nostro compito era quello di svolgere e risolvere calcoli complessi, proprio come avrebbe fatto un computer. Insomma, eravamo calcolatori umani, prima ancora dell’avvento di quelli elettronici. 

E anche il trattamento era disumano, o comunque quello che avresti assunto nei confronti di un oggetto. Per quanto la NASA potesse sembrare un luogo avanguardistico e progressista, era dominata da vecchi schemi razziali. La parola “inclusione” risuonava come una splendida promessa di rivalsa nelle orecchie della mia gente, ma era uno specchio per le allodole. Il mio stipendio non era neanche lontanamente paragonabile a quelli dei miei colleghi bianchi. Non potevamo lavorare nello stesso ufficio, condividere lo stesso bagno o bere dalla stessa macchinetta del caffè. 

Sono profondamente dispiaciuto! 

Purtroppo, il dispiacere non basta! Mi sono sempre chiesta perché mai esista il razzismo. Non abbiamo tutti le stesse esigenze, gli stessi bisogni o gli stessi diritti? 

Il colore della pelle…basta solo questo a renderci diversi, indegni, ripugnanti agli occhi del prossimo? Oppure c’era dell’altro, qualcosa di molto più profondo e psicologico. Forse, il vero problema era che fossi donna e che non potessi competere con l’uomo? Qualsiasi fosse il movente, non riesco né a capire né a legittimare le azioni di alcuni nei confronti di un altro essere umano, solamente perché ha una carnagione diversa, parla un’altra lingua o crede in un altro Dio. 

Ad ogni modo, il nostro lavoro come “calcolatrici” è stato fondamentale per il calcolo orbitale dei velivoli spaziali.

E poi, che è successo? 

Venivo assegnata, temporaneamente, al team (tutto al maschile) di ricerca di volo. Avevano un problema per il calcolo orbitale dei velivoli, e non riuscivano a risolverlo. Ma la soluzione era semplice: bastava utilizzare la geometria euclidea. 

Grazie alla mia conoscenza della geometria analitica, avevo riscosso un enorme successo agli occhi dei colleghi e dei dirigenti, tanto che si erano dimenticati di rassegnarmi al vecchio team. Così, dal 1958 fino al 1986, (anno in cui mi sono ritirata) ho lavorato per loro. 

Successivamente, mi sono trasferita ai controlli Spacecraft Branch. E nel 1959, ho calcolato la traiettoria per il volo spaziale di Alan Shepard, il primo americano nello spazio. 

Poi, quando la NASA introdusse i primi computer (1962) adoperati per il calcolo orbitale dei velivoli attorno alla Terra,  fui chiamata dai funzionari per verificare la validità dei calcoli. John Glenn, ossia l’astronauta che avrebbe guidato il velivolo attorno l’orbita terrestre, si rifiutò  categoricamente di volare…a meno che non fossi io a verificare la correttezza dei numeri.

Insomma, alla fine hanno riconosciuto il tuo valore e hai ottenuto una bella rivincita. 

Si, è stata una vittoria personale, prima come persona di colore e poi come donna. 

Però, non ti sei fermata solo a quello. Hai continuato a realizzare successi, non solo per te, ma per l’umanità intera. 

Esatto! Ti riferisci alla missione “Apollo 11” del 1969, quella che ha portato l’uomo sulla Luna. Mi ero occupata dei calcoli della traiettoria che lo Space Shuttle avrebbe compiuto. Però, il merito non va solo a me, ma a tutto il team. Infatti, progetti del genere non sono mai il risultato di una sola mente, ma della cooperazione di più persone. Il progresso nasce sempre dall’intelligenza collettiva e dal lavoro di squadra. E vedere l’uomo conquistare lo spazio, è stata un’emozione indescrivibile! 

È stato l’unico momento storico in cui tutti, nessuno escluso, avevamo gli occhi puntati al cielo ed eravamo uniti come fratelli. Nello scorcio di una visione spaziale potevi vedere l’intera umanità,  che viveva il coronamento di un sogno ancestrale.

Deve essere stato un momento indimenticabile! 

Si! Non ho più provato una sensazione del genere, nonostante abbia lavorato alla missione Apollo 13 (1970), al programma Space Shuttle e piani di spedizioni su Marte. Era una sensazione in bilico tra la beatitudine e la massima realizzazione. Poi, sono andata in pensione e nel 2015 il presidente Obama mi ha conferito la Medaglia Presidenziale alla Libertà (ottenuta solo da 17 americani). 

Katherine Johnson che riceve l'onoreficenza

Figura 2: Katherine Johnson was awarded the Presidential Medal of Freedom in 2015

Non solo! Sei tra le persone più influenti della scienza e della storia dell’umanità. Devi sapere che, dopo la tua dipartita, in tuo onore sono state realizzate scuole e centri di ricerca. E siamo grati per tutto quello che hai fatto per noi, perché è stato “un piccolo passo per una donna, ma un grande passo per l’umanità”. Grazie!

Mario Russo

Riferimenti 

  1. “Katherine Johnson Biography”, Margot Lee Shetterly, 22/11/2016,

Katherine Johnson Biography – NASA

  1. “NASA Trailblazer: Katherine Johnson”, National Geographic, 04/02/2021

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